La candidatura al Nobel per la Pace degli operatori sanitari rappresenta un concreto riconoscimento alla parola eroi
La candidatura al Nobel per la Pace degli operatori sanitari rappresenta un concreto riconoscimento alla parola eroi
Era il 30 gennaio 2020. Primi due casi di Covid in Italia, in un Paese fuori dalla Cina. Sono passati 441 giorni e due governi e alla terza ondata l’Italia sembra stare poco meglio che all’inizio, quando il vaccino ancora non c’era. Soprattutto, appare evidente che la sanità pubblica in più di un anno non ha corretto nessuno degli errori evidenziati all’inizio e, in caso di una futura pandemia, appare evidente che ci ritroveremo con gli stessi problemi. Oggi evidenziati dal numero più alto di morti rispetto alla popolazione e al numero di contagiati in Europa, non solo nell’Ue. E tanti operatori sanitari italiani morti, o devastati psicologicamente (dal burnout alla sindrome post traumatica), ormai in prima
linea, purtroppo abbandonati a sé stessi e al giuramento di Ippocrate, da oltre un anno. Qualcuno dirà: ma non è vero. I fatti: all’inizio mancanza di protezioni, di posti letto di terapia intensiva, di reagenti per tamponi, di ventilatori automatici, di medici e infermieri specializzati, di RSA adeguate nell’organizzazione e nella gestione di un evento pandemico di natura infettiva minaccioso soprattutto per over 70 e pazienti fragili. I politici: promesse, commissioni, comitati, garanzie di interventi immediati, anche episodi di malaffare legati ai primi appalti. In particolare, nel caso di mascherine e ventilatori. Senza considerare le app di tracciamento, mai utili ed efficaci come in altri Paesi, e, in seguito, quando sono arrivati i vaccini, i sistemi di prenotazione come quello lombardo (eppure c’era stato tutto il tempo per verificarlo).
La scienza, quella italiana: dai fatti alle parole, tante e confuse, dai laboratori e dai reparti a un presenzialismo fisso sui social, in tv, sulla stampa. Con qualche ricca consulenza in più. La burocrazia, braccio armato della politica: il 16 aprile 2021 finalmente si annuncia (badate bene si annuncia) che parte il bando per reclutare i medici specializzandi che vogliono effettuare le vaccinazioni anti covid, era previsto dal decreto sostegni del 16 dicembre 2020 (quattro mesi prima) per ampliare la platea dei vaccinatori e aumentare le capacità di somministrazione di vaccini sul territorio nazionale. Come spiega il commissario per l'emergenza Covid Francesco Paolo Figliuolo, ricordando che “il personale reclutato verrà impiegato in deroga alle incompatibilità dei contratti di formazione specialistica per la somministrazione dei vaccini presso i centri vaccinali in accordo con le esigenze rappresentate dalle Regioni”.
Ma è possibile che in oltre un anno non si sia fatto nulla per investire finalmente nella sanità pubblica, dopo anni di affossamento politico, di smantellamento della sanità del territorio dove è stato volutamente premiato chi non fa dimostrando che non funziona, è possibile che dopo la fila di bare a Bergamo e Brescia e i pazienti rifiutati dalle terapie intensive siamo al 16 aprile 2021 con un bollettino che ci informa che sono ancora ben tredici le Regioni con percentuali di posti letto occupati in terapia intensiva ben oltre la soglia limite del 30 per cento indicata dal decreto del Ministro della Salute come limite massimo oltre il quale si è in una situazione di allarme e vi sono 3.526 ricoverati Covid in area critica. Non sembra credibile in un Paese moderno, democratico e occidentale, non investire nella ricerca e nella sanità. Ma da noi il SSN, di alto livello, è stato recentemente gestito come mucca da mungere anziché fonte di espressione del genio italico e fonte di guadagno per l’intero Paese. A gennaio 2020 non avevamo né una produzione di mascherine, né di ventilatori automatici per le terapie intensive, né di reagenti per i tamponi, né tantomeno di vaccini. Però abbiamo il più alto numero di gestori politici della sanità pubblica. Ovviamente pagati.
E la realtà? Come sta chi è poi in prima fila?
Medici e infermieri costretti a infiniti turni di lavoro, blocco delle ferie e richiamo in servizio per i medici che operano in emergenza-urgenza, sempre più a rischio stress, erano un tot (i numeri contano poco, di anestesisti e rianimatori in Italia ne mancavano almeno cinquemila all’inizio della pandemia, ne mancano altrettanti ora). Personale ospedaliero spostato da un reparto a un altro o, peggio, da un ospedale a un altro, da una Regione all’altra (come nel caso di attualità pugliese di Brindisi o della struttura in Fiera del Levante) per cercare di dare un’adeguata assistenza ai pazienti. Sono stati fatti avvisi pubblici e bandi, ma sono andati costantemente a vuoto. Non ci sono medici e infermieri
da assumere. E ancora non vi sono state azioni per allargare questi numeri per il futuro, per la prossima pandemia. Restano bassi i posti per accedere alla specialità, restano basse le borse di studio, restano a numero chiuso le iscrizioni alla facoltà di medicina ma anche alle scuole infermieristiche. La coperta è corta e si fa sempre più corta. Anche perché un tempo i medici e gli infermieri avevano l’attrattiva di buoni guadagni, oggi non esiste nemmeno questo: mediamente nella nostra sanità pubblica si hanno stipendi più bassi di quasi metà del resto d’Europa e ai nostri ricercatori sono lasciate le briciole del sistema (a 40 anni sono ancora classificati come giovani e spesso arrivano a guadagnare quanto un impiegato di medio livello).
Con il Covid che cosa si è fatto?
Assunti a termine tanti giovani medici anche non specializzati da gettare in campo nell’emergenza senza alcuna formazione, o con poche ore teoriche. Pagati a ore più degli strutturati che in fatto di indennità e premi in proporzione hanno avuto meno. Quanti danni alla popolazione, ai pazienti, può portare una situazione del genere? Ai posteri l’ardua sentenza, anche se tra scudi penali e deresponsabilizzazioni condivise i conti saranno difficili da fare. Ma siamo in emergenza. Sì, ma ormai da oltre un anno. E sempre utilizzando i pannicelli caldi pur di non arrivare a rilanciare la sanità, senza corruzione e finalmente applicando scelte di merito.
Al momento, però, stiamo affrontando la terza ondata pandemica con lo stesso personale che ha affrontato la prima ondata. È come se ci si trovasse in una guerra privi di un esercito. È quello che ha già fatto la guerra contro la prima ondata, nel periodo in cui medici e infermieri venivano ancora chiamati eroi, che ha affrontato e superato con difficoltà la seconda ondata in autunno e che a questo punto si ritrova in totale difficoltà
nella terza e più pericolosa offensiva del virus. Anche perché l’Italia è l’unico Paese “ricco” nell’Ue ad avere carenza di dosi. Buon alibi per mascherare una disorganizzazione nella campagna di vaccinazione che solo da pochi giorni sembra in fase risolutiva.
Come riassumere, infine, la grave miopia politica non mutata nonostante l’emergenza? Tre parole: imbuto formativo, costosi sprechi tipo l’aumento dei posti letto per la rianimazione senza il personale per renderli operativi o la creazione di USCA per lo più inefficienti, pochi investimenti a lungo termine (nonostante i fondi europei destinati al rilancio).
Quindi la candidatura al Nobel per la Pace di questi medici e di questi infermieri, ma anche dei tecnici e di tutti gli operatori che affrontano realmente la pandemia, di tutti coloro che piangono per una vita che perdono, non solo è meritata ma rappresenta almeno un concreto riconoscimento alla parola eroi, di per sé altrimenti vuota.
Mario Pappagallo
Dott. Fausto D’Agostino
www.centroformazionemedica.it