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Chirurgia Epatobiliopancreatica: sfide e complessità raccontata dai chirurghi dell’Ospedale “Miulli”

Il webinar sulla Chirurgia Epatobiliopancreatica con i chirurghi dell’Ospedale “F.Miulli” organizzato da CFM.

La chirurgia epatobiliopancreatica è un tipo di chirurgia molto complessa che agisce su organi come fegato, vie biliari e pancreas. Può essere usata sia per patologie benigne sia per neoplasie. Queste ultime rappresentano forse l’aspetto più interessante della chirurgia epatobiliopancreatica, e per essere trattate necessitano di un’alta specializzazione e di un costante lavoro multidisciplinare che inizia nella fase preoperatoria e prosegue per tutto il follow up. La tecnologia ha fatto molti progressi e oggi le tecniche mininvasive e la chirurgia robotica possono fare la differenza soprattutto in termini di decorso post-operatorio.

Di tutto questo abbiamo parlato nel corso di un webinar organizzato dal dottor Fausto D’Agostino, direttore del Centro Formazione Medica e condotto da Angelica Giambelluca, giornalista specializzata in medicina e sanità e direttrice del magazine PERSONE OLTRE LA MALATTIA. Con noi c’erano tre chirurghi dell’ Ospedale “F.Miulli” di Acquaviva delle Fonti (Bari): il Professor Riccardo Memeo, Direttore della U.O.C. di Chirurgia Epatobiliopancreatica, e le Dottoresse Antonella Delvecchio e Maria Conticchio.

“Di questo tipo di chirurgia si parla sempre più spesso – ha commentato D’Agostino – anche purtroppo per vicende tragiche come la scomparsa del calciatore Gianluca Vialli, venuto a mancare a causa di un brutto tumore al pancreas. Si tratta di un tipo di chirurgia molto complesso perché interviene anche sugli organi adiacenti a quello interessato dalla malattia: l’approccio multidisciplinare e la specializzazione qui giocano un ruolo chiave. E le ultime innovazioni tecnologiche sicuramente possono fare la differenza. Al webinar hanno preso parte oltre 500 partecipanti, segno che il tema suscita grande interesse tra i professionisti sanitari”.

 

Chirurgia epatobiliopancratica: che cos’è e come si interviene

Il distretto epatobiliopancreatico comprende una serie di organi che possono essere colpiti da patologie oncologiche abbastanza complesse da gestire. Parliamo nello specifico del fegato, delpancreas e delle vie biliari. Complesse nella loro gestione perché colpire uno di questi organi imputa la necessità di avere un approccio multidisciplinare: “A volte può capitare – afferma Memeo – di non avere una patologia d’organo semplicemente resecabile con un intervento chirurgico, e per questo è necessaria la collaborazione con più specialisti. Se si pensa per esempio al tumore del pancreas, si deve collaborare con i colleghi della radiologia interventistica, gli endoscopisti, gli oncologi, i radiologi, tutta un’altra serie di figure professionali che rientrano in questo genere di percorso”.

La chirurgia delle neoplasie di questi organi richiede un periodo di formazione abbastanza lungo e complesso, oltre a dover essere effettuata in strutture che possano garantire non solo la gestione dell’intervento chirurgico, ma anche la collaborazione di anestesisti dedicati, di rianimatori. “Ma è importante – riprende Memeo- analizzare bene il caso prima di decidere se eseguire l’intervento: sappiamo che le indicazioni della chirurgia sono abbastanza determinate e ristrette, ma il paziente va seguito anche dopo l’intervento chirurgico perché il percorso di cura del paziente non finisce in sala operatoria, ma richiede la collaborazione di molti specialisti soprattutto nel post operatorio, quando possono presentarsi alcune complicanze come un sanguinamento o una disfunzione d’organo. Occorre quindi lavorare in strutture che possano garantire una presa in carico corretta, dall’inizio alla dimissione e a tutto il follow up”.

Non tutti i pazienti possono operarsi

La selezione dei pazienti è un momento complesso. Per capire se un paziente è candidabile alla chirurgia devono essere analizzati diversi aspetti, come indicato dalle linee guida nazionali e internazionali. “Noi dobbiamo capire quale beneficio può avere il paziente dall’intervento – interviene Delvecchio – quindi quanto la chirurgia aumenta la sopravvivenza e se la aumenta. Il tipo di intervento deve essere radicale, dobbiamo raggiungere il cosiddetto R-zero, quindi togliere completamente il tumore dal paziente. Per fare questo occorre studiare il paziente a trecentosessanta gradi, compiendo un work up pre operatorio, quindi una stadiazione del paziente, effettuando indagini strumentali utili a capire dove è localizzato il tumore e quanto è esteso, se c’è un’invasione vascolare, se ci sono delle metastasi a distanza, etc…

In questa fase ci aiutano, soprattutto per il tumore del pancreas, anche dei marker biologici, quindi i cosiddetti CA 19-9, che non sono indispensabili per la diagnosi, però possono rappresentare un fattore prognostico negativo perché se si va oltre un certo valore, significa che quella neoplasia non è così tanto localizzata”.

Dopo aver analizzato le caratteristiche intrinseche al tumore, occorre anche valutare altri aspetti, come le comorbidità e l’età del paziente e questo si realizza in collaborazione con anestesisti, perché si valutano gli score preoperatori per capire quali tassi di complicanze possono esserci in caso di intervento. In sostanza, la candidabilità del paziente ad un intervento o meno dipende sia dal tumore sia dalle caratteristiche del paziente.

“L’intervento, quando si decide, rappresenta sempre l’unico trattamento curativo – ricorda Conticchio – che oltre a permetterci l’asportazione della neoplasia in senso stretto, ci consente anche di poter attuare una serie di strategie terapeutiche associate, di poter stadiare la malattia e indirizzare il paziente poi ad un percorso oncologico successivo, e spesso necessario, nel post operatorio”.

Le controindicazioni esistono, come in qualsiasi intervento: nel caso della chirurgia epatobiliopancreatica, una controindicazione può essere la presenza di metastasi ad altri organi addominali o anche in altri distretti dell’organismo e quindi in questo caso il paziente non è candidabile. “Altre controindicazioni riguardano le condizioni cliniche generali del paziente – continua Conticchio – perché spesso questi pazienti necessitano di un’ottimizzazione operatoria che ci consente di migliorare le condizioni cliniche generali prima di eseguire l’intervento”.

 

 La chirurgia del tumore al pancreas: si può intervenire in un caso su dieci

Il tumore al pancreas è tra i più temuti e se fino ad oggi era considerata una neoplasia piuttosto rara, nei prossimi anni è destinata a diventare la seconda causa di morte per tumori gastrointestinali e riguarderà sempre di più pazienti giovani. “Questo sta succedendo perché è aumentata l’esposizione della popolazione ai fattori di rischio di sviluppare una neoplasia – ricorda Memeo – allo stesso modo questa evoluzione si interseca, fortunatamente, con una diagnosi che diventa sempre più precisa e sempre più precoce, in modo tale che queste neoplasie si possano essere trattate in fase iniziale. Nel momento in cui si ha una diagnosi di tumore al pancreas, solo in un caso su dieci si può intervenire chirurgicamente; in altri casi si è già in una fase in cui la chemioterapia rappresenta l’unica soluzione; in altri ancora nemmeno la chemioterapia può dare un supporto”.

Quindi è importante che, nel momento in cui si arriva a identificazione della presenza di un problema a livello del pancreas, fare esami radiologici che indichino la stadiazione della malattia.

Il tipo di intervento cambia anche a seconda della localizzazione del tumore. “Le neoplasie del pancreas le possiamo suddividere in due grosse tipologie – aggiunge Memeo – quelle che si hanno nella testa del pancreas, quindi nella parte un po’ più centrale del nostro corpo, e neoplasie che sono nella coda del pancreas, che si estendono più nella parte sinistra del nostro corpo e che quindi sono suscettibili di un altro tipo di intervento. Per le prime, l’intervento standard è una duodenocefalopancasectomia. C’è un’asportazione del pancreas, della via biliare, del duodeno e di una parte dello stomaco. Questa chirurgia espone i pazienti ad elevati rischi di complicanza e purtroppo anche a un indice di mortalità del 4-5% circa. Nel secondo caso, si può fare una chirurgia  demolitiva (asportazione della coda del pancreas con la milza) ma  che espone il paziente a minor rischio di mortalità e di complicanza”.

“Il principale problema del tumore al pancreas è il tipo di tumore che andiamo ad operare: gli adenocarcinomi pancreatici sono molto aggressivi, mentre i tumori neuroendocrini che hanno aggressività leggermente inferiore, sono più gestibili anche con la terapia.  Il tipo di tumore, e soprattutto l’invasione dei linfonodi che possiamo studiare dopo aver asportato il tumore, ci indicano quale sarà il futuro e la prognosi di questi pazienti che attualmente, nella maggioranza dei casi, una volta operati dovranno seguire un percorso con chemioterapia”.

I tumori del fegato e la complicata gestione della rigenerazione dell’organo

I tumori del fegato si dividono in tumori primitivi, quindi che originano dalle cellule del fegato –  gli epatociti per l’epatocarcinoma e i colangiociti per il colangiocarcinoma – oppure secondari, quindi tumori metastatici causati da una neoplasia originata nel sistema gastroenterico, la più diffusa è il tumore del colon retto. “Vi sono svariati tipi di tecniche chirurgiche che possono essere eseguite – ha aggiunto Delvecchio – e dobbiamo sempre considerare il nostro obiettivo che è l’R zero – la radicalità oncologica – quindi possiamo eseguire delle resezioni epatiche minori o addirittura maggiori che prevedono l’asportazione anche di metà o più parte del fegato”.

Il fegato è un organo che si rigenera, ma ha bisogno di tempo per farlo. Il paziente, invece, una volta operato, si ritrova da un momento all’altro senza questa parte del fegato. “Per questo occorre capire, prima di operare, come sarà il fegato residuo, non solo in termini di volume ma anche di funzionalità. Spesso, soprattutto l’epatocarcinoma, insorge su un fegato che non è sano, quindi avere un buon volume non significa che sia anche funzionante”.

“Ci sono numerose procedure e tecniche che ci permettono, attraverso due step, di completare tutto l’iter che abbiamo stabilito per il nostro paziente. Nella fase iniziale si effettuano  tecniche di radiologia interventistica o chirurgiche per determinare l’ipertrofia epatica: consistono nel ridurre l’apporto vascolare al fegato malato, in maniera tale da convogliare il sangue, quindi tutte le sostanze nutritive, al fegato residuo che andrà in corso di ipertrofia. Tra questa prima fase e la seconda (la resezione epatica vera e propria) occorre attendere 4 settimane. Ci sono anche procedure tecniche innovative come la ALPPS (Associating Liver Partition and Portal vein ligation for Staged hepatectomy): sono due momenti chirurgici e nel primo, oltre a ridurre il sangue che arriva al fegato, si va a determinare una sorta di resezione epatica per devascolarizzare completamente il fegato che sarà asportato. Questo ci permette di avere comunque un’ipertrofia anche nell’arco di sette dieci giorni”.

“Questa tecnica però è gravata da più complicanze perché, perché all’aumento di volume (ipertrofia) può non corrispondere un aumento della funzionalità. Ecco perché è importante realizzare uno studio preoperatorio, utilizzando anche tecniche di ricostruzioni tridimensionali per verificare i volumi epatici residui, perché la peggiore complicanza post operatoria che si può verificare è l’insufficienza epatica, che è gravata da elevata mortalità”.

 

Anche per i colangiocarcinomi, il trattamento dipende dalla localizzazione del tumore

I colangiocarcinomi originano dalle cellule dell’albero biliare. Nel caso del colangiocarcinoma intraepatico, si può presentare con dei noduli, nel caso del colangiocarcinoma perilare abbiamo una compromissione delle vie biliari. Sono patologie che richiedono un trattamento complesso.

“Quando la parte interessata è il tratto mediale che richiede il confezionamento di un’anastomosi (un collegamento) che ripristini la continuità dell’albero biliare con il tratto gastroenterico – rimarca Conticchio – si può optare per la resezione della via biliare principale, sino ad epatectomie (resezione del fegato) maggiori e che pertanto necessitano di un’attenta valutazione preoperatoria e preparazione del paziente. Quando invece il tumore interessa il tratto più distale della via biliare, si usa un trattamento simile a quello previsto per le patologie  neoplastiche del pancreas, e quindi un intervento come la  duodenocefalopancasectomia: c’è la fase demolitiva in cui il tumore, con tutti gli organi interessati,  viene asportato e una fase ricostruttiva, altrettanto complessa non solo da un punto di vista puramente chirurgico, ma soprattutto per quella che è la gestione nel post operatorio, della morbidità e della mortalità, che comunque non è trascurabile. Quindi, il trattamento del colangiocarcinoma dipende dalla stadiazione, dal livello di resecabilità del tumore e dalla possibilità di poter essere trattato in centri specializzati su questo tipo di patologia.

Il ruolo della tecnologia nella chirurgia epatobiliopancreatica

Come abbiamo visto, l’obiettivo della chirurgia deve essere sempre quello di poter asportare completamente la malattia. Questo può essere fatto in diversi modi: con la chirurgia tradizionale, che prevede il classico taglio anche di trenta, quaranta centimetri oppure può essere fatto utilizzando tecniche mininvasive. “Quella mininvasiva è la chirurgia laparoscopica– sottolinea Memeo– e prevede delle piccole incisioni di un centimetro per creare gli accessi alla cavità addominale, ed entrare nell’organismo attraverso strumenti molto sottili: in questo modo si compie lo stesso gesto chirurgico che fino a poco pochi anni fa si poteva fare solo per via tradizionale. Questo approccio ha migliorato ad esempio il decorso post-operatorio del paziente, perché potete immaginare la differenza tra il trauma subito dopo un intervento tradizionale rispetto al trauma dell’intervento fatto per via mininvasiva. Questo ultimo è molto più gestibile, anche dal paziente stesso. Parliamo di pazienti anziani e fragili, pertanto, più siamo conservativi e mini invasivi, tanto meglio è per il paziente”.

La chirurgia mininvasiva in questi ultimi anni sta puntando molto sulla chirurgia robotica. La differenza con la mininvasiva e tradizionale, è che tra il chirurgo e il paziente, c’è appunto il robot, ossia una piattaforma che, comandata dal chirurgo, riproduce i gesti del medico in maniera molto precisa e delicata. “Possiamo considerarla una sorta di ultra-specializzazione della chirurgia mininvasiva – aggiunge Memeo – che ci permette di svolgere interventi complessi con una maggiore facilità e offre la possibilità, nel futuro, di poter integrare sempre di più le nuove tecnologie che si stanno affacciando sul campo della medicina: la realtà aumentata, la navigazione intraoperatoria e a tutte quelle applicazioni come, per esempio, la fluorescenza, che ci aiutano a ridurre al minimo l’errore durante l’intervento chirurgico. Tutto questo sviluppo tecnologico è fatto per essere meno aggressivi sul paziente e sempre più precisi nel trattamento di questo genere di patologie, non dimenticando però il primus movens di tutta quanta la questione, ossia

quello di poter trattare in maniera completa la patologia, quindi: una corretta asportazione del tumore, una corretta asportazione dei linfonodi, una corretta realizzazione delle anastomosi, delle cuciture che sono necessarie nella fase di ricostruzione dopo la fase in cui si asporta il tumore”. L’utilizzo della chirurgia mininvasiva deve essere fatto da chirurghi che hanno le stesse competenze in chirurgia tradizionale e in chirurgia mininvasiva: per questo è importante rivolgersi a centri rinomati per questo tipo di chirurgia nel campo delle neoplasie del distretto epatobiliopancreatico.

L’importanza sempre più strategica dell’approccio multidisciplinare

Come abbiamo visto, nella chirurgia epatobiliopancreatica, più che in altri ambiti, il lavoro di team è condizione indispensabile, non solo accessoria.

“Non si può pensare di portare un paziente in sala operatoria senza aver discusso il caso in team multidisciplinare – ribadisce Delvecchio – e anche su questo ci sono delle evidenze scientifiche. Si è visto infatti che il caso del paziente che viene discusso in team multidisciplinare ha una migliore sopravvivenza e ha dei migliori outcome post-operatori. Perché il caso viene discusso da una serie di professionisti altamente specializzati: ad esempio, noi ci riuniamo ogni settimana e sono presenti anche gli oncologi, i radiologi, i radiologi interventisti, i radioterapisti, i medici nucleari, gli oncologi gastroenterologi e medici interni. È fondamentale la presenza di ognuno di loro perché per ogni paziente deve essere definito il giusto work up terapeutico. E questo non permette solo a noi professionisti di dare il massimo, ma è anche un beneficio per il paziente che è più propenso ad accettare tutto l’iter terapeutico. Ed è fondamentale anche la presenza di un nutrizionista che deve ottimizzare il paziente e portarlo al tavolo operatorio nelle migliori condizioni possibili, come anche la presenza dello psicologo perché non dobbiamo solo considerare il paziente come se fosse solo il suo tumore, ma dobbiamo considerare anche che ha un suo stato emotivo di cui tenere conto per permettergli di affrontare meglio tutto il percorso terapeutico”.

 

La formazione specialistica è fondamentale, e non finisce mai

È importante la formazione così come l’expertise del centro che eseguirà l’intervento: “I dati evidenziano – spiega Conticchio – quanto i centri ad alto volume e quindi centri ultra-specialistici che eseguono un determinato tipo di procedura chirurgica per una definita patologia, possano garantire risultati migliori in termini di morbidità postoperatoria e mortalità, rispetto a quelli di centri che sporadicamente affrontano e trattano questa patologia”.

Per quel che concerne la formazione, il discorso è complesso perché in realtà quella dell’ultra specializzazione è un’idea alla quale si sta arrivando adesso è che probabilmente verrà sviluppata di più in futuro. “Per quel che concerne la nostra realtà italiana – spiega l’esperta –  ritengo che la nostra scuola di specializzazione fornisca gli strumenti fondamentali per il medico che segue il percorso di specializzazione in chirurgia generale. Per quanto concerne l’ultra-specializzazione, nel nostro caso specifico della chirurgia epatobiliarepancreatica, probabilmente si inizia a comprendere di voler intraprendere questo percorso durante la formazione, ma è fondamentale poi procedere per step che quindi richiedono corsi di formazione e aggiornamento continui. E una preparazione che probabilmente non finisce mai e che è strettamente correlata alla scelta professionale che si fa e che condiziona inevitabilmente anche le scelte di vita personali”.

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